giovedì 19 marzo 2009

Pellestrina, l’isola dove non c’è più lavoro

La chiusura dei cantieri De Poli e la crisi della pesca alimentano malessere e preoccupazione tra i 4 mila residenti

 

Il paesaggio è, come al solito, da cartolina: la fila di pescherecci all’ormeggio, il sole che si specchia sull’acqua, le casette basse e colorate. Ma le facce della gente, a spasso per il lungolaguna, sono scure. Pellestrina sta male, e si vede. «Fino a tre anni fa, chi veniva qui mi invidiava. E io mi sentivo in paradiso - racconta Manuel Scarpa, 28 anni, presidente della Caneva, una delle tante cooperative di pescatori in affanno - Ora mi sento come allo zoo: non c’è lavoro e qui faccio l’indigeno per chi passa. L’isola non ha più un senso. Pellestrina è finita».
      Una testimonianza tra le tante in un’isola piena di orgoglio e amarezza per un’identità che va perdendosi. Basta una passeggiata tra i pescatori in difficoltà, o tra gli operai dei cantieri De Poli ritrovatisi, all’improvviso, senza lavoro, per toccare con mano questo malessere diffuso. Malessere molto isolano di chi, soprattutto, si sento non capito da quelli che vengono da fuori: che siano della Municipalità («si occupano solo del Lido»), piuttosto che di Insula («ci lasciano con i cantieri aperti»), del Gral («stanno distruggendo la nostra pesca») o del Magistrato alle acque («hanno fatto una spiaggia che se ne sta già andando»). Umori neri, conditi dalle immancabili imprecazioni contro i politici e da tanta voglia di fare da soli.
      IL LAVORO CHE NON C’È - «Le pesca non va, il cantiere ha chiuso. E la gente non compra più. Non vendo nemmeno un quarto delle sigarette di due mesi fa». La signora Dea, titolare del bar di piazzale Zendrini, ha poco lavoro e tanta rabbia. «Colpa di questi p... politici» conclude. Un buon inizio per questo giro di Pellestrina, con i suoi 4 mila abitanti, poco più, e il suo mondo a parte dai ritmi lenti. Che ora, però, si sono fermati. Fin troppo. Pescatori e lavoratori della De Poli, questi erano i clienti della signora Dea. Ed ecco spiegate le sigarette invendute, ma anche i gelati o lo spritz che nessuno sembra più potersi permettere.
      Il tracollo è arrivato due mesi fa, appunto, con l’improvvisa chiusura del cantiere: 100 persone a casa, più i 200, 300 "foresti" (per lo più stranieri) degli appalti. Il come è finita brucia ancora agli operai De Poli, spesso figli di operai, per cui il cantiere era molto di più di un posto di lavoro. «Siamo senza soldi da dicembre e pure prigionieri dei De Poli - accusa Tucidide Busetto, il Cide, figura di riferimento della vecchia Rsu - Non ci danno la mobilità, che ci faciliterebbe a trovare una nuova occupazione, magari con il Consorzio Venezia Nuova per i cantieri del Mose. Avevamo anche chiesto che i pochi posti rimasti fossero messi a rotazione. Invece no: a lavorare restano gli stessi, che sono per lo più della famiglia De Poli». «E intanto io non ho i soldi con cui pagare i buoni pasto dei miei figli» sbotta un altro operaio. Il vecchio senso d’appartenenza al cantiere ha lasciato il posto solo alla rabbia.
      LA PESCA IN MEZZO AL GUADO - Se la crisi del cantiere navale è esplosa all’improvviso, quella della pesca è storia annosa. «Sono state colpite le colonne portanti di Pellestrina - sintetizza Domenico Gorin, presidente della delegazione di zona della municipalità, oltre che presidente della cooperativa pescatori Pellestrina - E l’allevamento, senza pesca, non ha futuro».
      Su questo punto le opinioni divergono. Manuel Scarpa, il giovane presidente della Cavana, è convinto che sia possibile vivere anche con l’allevamento, ma a condizioni diverse, più favorevoli per i pescatori: «Il Gral ha le aree dal Magistrato alle acque per 36 euro all’ettaro e a noi ce le gira per a 380! É davvero troppo. Così non tiriamo avanti». «La colpa è del Gral - concorda anche Aldo Marmi, presidente della cooperativa San Pietro in Volta -. Se vogliamo essere concorrenziali con gli altri allevatori, non possiamo sostenere queste spese. I pescatori sono allo stremo e tornano ad arrangiarsi».
      La solita vecchia piaga dell’abusivismo: i barchini che escono nella notte, la razzia di vongole proibite, gli inseguimenti con le forze dell’ordine. É della settimana scorsa il caso dell’"abusivo" che si è gettato in acqua per sfuggire ad un controllo. Che qui in isola viene riferito più con comprensione, che stigmatizzato: «Che doveva fare? Ha rischiato di morire di freddo. Era disperato...».
      L’ISOLA FINITA - É il tormentone del che cosa fare a (e di) Pellestrina. «Che possono fare qui i giovani? - si chiede un pescatore in pensione - Niente. E infatti se ne vanno a Cavallino. Negli ultimi mesi cinque case sono state messe all’asta dalle banche, tutte di coppie giovani che non riuscivano più a pagare il mutuo». Un paio di cartelli "vendesi" campeggiano proprio in piazzale Zendrini, l’eterno cantiere, che in isola sta diventando un altro simbolo dell’abbandono in cui si sente lasciata Pellestrina. Insula lo ha aperto un anno fa, doveva chiudere a giugno 2008, ora si spera in dicembre 2009. «Hanno disfatto la nostra isola e ci lasciano nel fango - s’indigna Olinto Scarpa, il presidente del gruppo anziani Marella - Vengono a lavorare tre, quattro giorni, poi spariscono. Non è così che si fa funzionare un cantiere...». A pochi metri di distanza, sulla strada, c’è la fila delle pensiline per gli autobus. Altro motivo di arrabbiatura per i pellestrinotti. «Le hanno montate storte, per come tira il vento qui - spiega Mario Sambo, dell’associazione "Tra mare e laguna" -. Così, quando piove, non servono a nulla. Ecco come lavorano per Pellestrina».
      IL TURISMO QUESTO SCONOSCIUTO - Altri quattro passi. E siamo in spiaggia. Ha dodici anni, non è ancora attrezzata. Un po’ di sabbia se n’è andata, mentre le "scoasse" del mare abbondano. «E pure le pantegane - racconta Antonietta Busetto, a Milano studentessa, a Pellestrina presidente dell’associazione "Tra mare e laguna" - Non pretendiamo di avere il Lido, ma questa situazione è indecente. Chiediamo solo un po’ di manutenzione...». E pensare che quei 12 chilometri di sabbia, «gli unici non sfruttati da Triste a Ravenna, potrebbero essere il futuro dell’isola»: Emilio Ballarin, già presidente del vecchio Consiglio di quartiere di Pellestrina, ne è sempre più convinto. «Oggi in isola c’è un’insicurezza complessiva - osserva - perché non è stata trovata nessuna alternativa a quelle che erano le attività portanti, nessun progetto di sviluppo. Il modello turistico è sempre stato rifiutato da Pellestrina, per la sua stessa mentalità. Ma ora sarebbe il momento di provarci, magari puntando su un turismo diverso, non di massa. Anche perché il rischio, con questa spiaggia, è di ritrovarci solo il peggio del turismo mordi e fuggi». Si vedrà.
      MOSE, MA CON CHI - Intanto chi arriverà, a breve, sono gli operai per i cantieri del Mose. A Santa Maria del Mare quelli del Consorzio Venezia Nuova sono già al lavoro per creare il contestato villaggio da 400 posti, destinati appunto a chi dovrà realizzazione i cassoni. «Non vogliamo che vengano solo stranieri - avverte Alessandro Scarpa Marta, uno dei pellestrinotti che siede in Municipalità al Lido -. Prima bisogna dare un posto ai nostri compaesani, poi agli stranieri. Il rapporto deve essere almeno di metà e metà...». Marta è arrabbiato: «Basta decisioni che ci piovono dall’alto, per il Mose come per resto. Pellestrina ha bisogno di una sua rappresentanza.
      STARE DA SOLI - Ecco il filo conduttore di tanti malumori. «La situazione è precipitata da quando non abbiamo più un nostro quartiere - sostiene Antonietta Busetto - ma siamo insieme alla Municipalità del Lido». «I miei colleghi del Lido sono ottime persone - le fa eco il consigliere Scarpa Marta -, ma non possono capire Pellestrina e i suoi problemi, siamo un altro mondo». Ed ecco allora anche questo nuovo gruppo "Pellestrina c’è" che sta raccogliendo consensi trasversali per ridare all’isola una sua istituzione rappresentativa, sempre sotto Venezia. Tanti consensi, ma pure qualche dissenso. «Tutti parlano di questa autonomia. Ma non è chiaro di che cosa si stia parlando, né che cosa voglia questo gruppo - osserva Piero Scarpa, consigliere di Municipalità non pentito - Un consiglio di quartiere non avrebbe senso, un’altra Municipalità non ce la daranno mai. L’alternativa non detta sarebbe quella di passare con Chioggia. Ma sarebbe una forzatura». Che qualcuno, però, forse sta già accarezzando.
      Roberta Brunetti

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